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Dacci oggi la nostra eroina quotidiana/1

 

Iris l’Irriverente

 

Occhiali tondi extra-size, caschetto platinato, rossetto sempre & comunque, lei si autodefinisce con tipica ironia yiddish (suo padre era ebreo) una starlet geriatrica. E’ Iris Apfel, la leggendaria fashion guru newyorkese proclamata Regina della moda e del design da tutti quelli che contano, oltre che dai suoi 195.000 followers su Instagram. Colleziona da sempre abiti e gioielli, arreda interni, cura mostre, tiene lezioni in università prestigiose, non manca mai a feste importanti ed eventi supermondani: avercela, la sua energia, a novantacinque anni suonati. Sì, avete letto bene: 95 anni. Mentre Carl, l’amatissimo marito e socio in affari, se n’è andato qualche giorno prima di tagliare il traguardo dei cento. Del resto, settantasei anni di matrimonio con l’eccentrica ed inarrestabile Iris avrebbero probabilmente stroncato molto prima chiunque altro. Lei, anziché deprimersi, l’anno scorso ha girato il suo primo spot pubblicitario: in forma smagliante, guidava veloce una nuova Citroen infilandosi in mezzo ad un tùrbine di stracci colorati. Roba da infarto per chiunque la incrociasse sulla sua strada. “Non ho nessuna regola, anche perché le infrangerei tutte” ha dichiarato più volte Iris, ma ce n’eravamo già accorti da soli.  

“Non sei bella e mai lo sarai, ma non importa, tu hai qualcosa di meglio: tu hai stile”, le dissero il suo primo giorno di lavoro da commessa in un grande magazzino di Brooklyn. Mentre io banalmente preferirei essere bella e senza stile, Iris al contrario ne ha fatto il suo personalissimo mantra contro la banalità. Preferisce la chincaglieria colorata - che noi regaleremmo con imbarazzo persino ad un capo tribù africano - ai gioielli di Harry Winston, il Bulgari americano; veste solo abiti esagerati e pellicce multicolor, che addosso a lei  sono strepitosi ma che ci farebbero impallidire se li mettesse la nostra vecchia zia pazza. Il fatto è che di Iris Apfel ce n’è una sola, nessun’altra potrebbe osare tanto senza rischiare un TSO  - ovvero trattamento sanitario obbligatorio - ad ogni uscita di casa. Però noi aspiranti fashioniste possiamo sentirci tutte un po’ Iris almeno per un istante: basta dare fuoco senza rimpianti al nostro classico tubino nero. Sperando che ci regga la pompa al pensiero di quanto l’abbiamo pagato. Del resto si sono fidati di Iris persino nove presidenti degli Stati Uniti - da Truman a Clinton - lasciandola libera di rivestire i saloni della Casa Bianca di velluti animalier (per la precisione, tigrati e leopardati).“Pensavo bisognasse essere morti per venire esposti al Metropolitan Museum!” ha detto lei, l’Irriverente, commentando la mostra che nel 2005 le ha dedicato con strepitoso successo uno dei più prestigiosi musei del mondo. E non si capisce se Iris stava parlando della sua iconica mummia, oppure delle sue creazioni. La più recente delle quali si chiama “Magic Hands”, ovvero una collezione di anelli eclettici, sofisticati e retrò, dedicata alle over 70, un nuovo trend lanciato da lei. Del resto, come ripete sempre: “L’età è solo un dettaglio”. Anzi, le rughe sono una sorta di distintivo del coraggio. Dunque, care ex-ragazze, smettiamola di asfaltare le nostre sotto il fondotinta.

E se Iris fosse nostra nonna? Di sicuro lei non si metterebbe a leggere le solite edulcorate favole disneyane. In un Paese delle Meraviglie in stile Tim Barton, se ne starebbe appollaiata su un fungo - psichedelico, of course - con il suo narghilè, fissando la sballatissima Alice (sua degna nipotina) da dietro gli occhialoni colorati: “Tu hai stile, bambina.”  Se avrò la fortuna di raggiungere i novantacinque, anch’io voglio andare a fare shopping vestita da Maria Stuarda, mettermi un rossetto rossissimo solo per portare giù il cane, appendermi un lampadario al collo e presentarmi al compleanno della vicina di casa. Ma visto che, nonostante tutti gli sforzi, sarebbe impossibile essere come Iris, nella prossima vita vorrei essere Iris. Anche solo per questa sua frase: “E comunque è sempre meglio essere felici piuttosto che vestite bene”.

Dacci oggi la nostra eroina quotidiana/4

 

Provaci ancora, Kim

 

Solo una persona al mondo è capace di farsi eleggere per cinque volte consecutive “Uomo meglio vestito della Corea del Nord” indossando sempre la stessa divisa blu; di indire le elezioni essendo l’unico candidato votabile (gli eventuali competitors sono rinchiusi nei segretissimi lager per dissidenti politici & oppositori del regime); di imporre il suo ridicolo hairstyling ai sudditi, non solo uomini ma anche donne; di regalare loro persino un fuso orario tutto speciale: una mezz’ora più indietro del resto del mondo, tanto è difficile che vadano a farsi una vacanza all’estero; addirittura - pare - di far costruire una chiesa nella capitale Pyongyang solo per potersi fregare le offerte dei fedeli. Questo tipo unico nel suo genere (almeno si spera) si chiama Kim Jong-un.

Non si tratta, come vedete, di una delle mie eroine quotidiane, le solite donne coraggiose originali e toste. In questo caso l’eroina del titolo è quella iniettabile, che magari potrebbe essere un buon modo, un po’ estremo magari, per annientare quelli come Kim Jong-un: un goffo e feroce Doraemon (il gatto robot dell’omonimo manga anni ’70, che però era molto più simpatico) extra-size, con trenta chili di ciccia in esubero accumulati a causa dello stress da Gestione del Potere Assoluto.

Noi occidentali evoluti e democratici ridiamo delle immagini fotoshoppate di Kim e delle videoparodie che in questi giorni si moltiplicano sul web. Ridiamo del suo ciuffo nero asfaltato, delle pose marziali (nell’immancabile divisa che fa tanto revival di MaoTseDong) mentre assiste a mastodontiche parate negli stadi, ispeziona truppe fieramente schierate, visita asili nido costellati di pupazzi e palloncini colorati,  ma deserti. E i bambini dove sono? Un numero impressionante di loro è recluso nell’inferno dei gulag, secondo l’inchiesta dell’ONU sulle violazioni dei diritti umani in Nord Corea.

Del resto, come scrive l’intellettuale Guy Delisle, a certi livelli di oppressione la verità non conta molto perché più grande è la menzogna, più grande è la dimostrazione di potere.

 

“Sarà una risata che vi seppellirà” è uno degli slogan più belli e sfacciati degli anni ’70, copiato dagli anarchici ottocenteschi. Da sempre, infatti, ridere in faccia al Male è un’azione importante e salutare, come ci ricorda il giornalista e ricercatore americano Cole Stryker. Ma. Ma mi muore in gola ‘sta risata, se penso che Kim non è solo un ridicolo tirannello orientale, bensì il leader sanguinario di un Paese in cui i diritti umani sono pari a zero e il 41% della popolazione vive sotto il livello minimo di nutrizione mentre il regime spende una montagna di denaro per costruire missili con testata atomica.

La Storia dovrebbe insegnarci qualcosa, visto che ne abbiamo già avuti parecchi, di kim jongqualcosa, gheddafi, saddam e assad; e invece non impariamo mai: fino a che ci fa comodo per i nostri affari sosteniamo questi galantuomini, poi quando non ci servono più, li scarichiamo alla svelta senza andare tanto per il sottile. A proposito di metodi sbrigativi, Kim si è dimostrato un vero campione: sapete ad esempio com’è stato giustiziato l’ex numero 2 del regime, accusato di tradimento? Facendolo sbranare da centoventi cani. E si trattava dello zietto di Kim, mica di un estraneo. Ricordate il detto popolare “parenti serpenti”?

Allora pensate che vita rilassata fa la moglie di Kim, la sempre sorridente e impeccabile first lady Ri Sol-ju, ex cantante e ballerina scelta per mettere in scena la favoletta dell’amorevole padre di famiglia. Ti credo che lei non batte ciglio nemmeno quando il gagliardo consorte ordina ai suoi tirapiedi di procurargli le cosiddette “truppe del piacere”, ovvero fanciulle 12-14enni costrette a intrattenerlo (vi prego, risparmiateci i dettagli ).

Il Nostro però ha anche un altro hobby, la corsa. Almeno in questo non ci sarebbe niente di male, se non si trattasse di quella all’atomo. Non è un mistero che dal 2006 la Corea del Nord, all’epoca guidata dal papà di Kim, si stia dotando di missili intercontinentali in grado di vetrificare San Francisco e Los Angeles (ma l’obiettivo vero sarebbe la Silicon Valley, la fabbrica di progetti techno più preziosa dell’occidente).

Fatto sta che l’altro Muppet - ricordate i pupazzi del Muppet Show, vero? -  quello giallocrinito che governa gli USA, ad un certo punto si è innervosito e ha spedito contro Kim, senza se e senza ma, la Invincible Armada a stelle & strisce. Metteteci pure che Kim, per lanciare un messaggio forte & chiaro circa le sue intenzioni bellicose, a marzo aveva sparato quattro missili verso la base giapponese che ospita gli F35 americani, alleati per altro del governo sudcoreano. Poi ci sono i soliti cinesi, sempre più presenti nel Risiko mondiale, e il solito Putin che quando c’è in ballo qualche vicenda opaca non manca mai. Perdonatemi ma ad un certo punto io perdo il filo e vedo solo SuperMaschi che giocano a chi ce l’ha più lungo (il missile, of course), e pazienza se nella contesa ci rimettono la vita uomini donne e bambini che non hanno fatto niente di male oltre a nascere nel paese sbagliato.

Resta il fatto che il futuro del pianeta è in mano a loro, anzi dipende da quell’unico dito (di Donald, al momento) che può schiacciare il fatidico Bottone decidendo in un nanosecondo di ridurci tutti quanti in polvere, o meglio di svaporizzarci, come mi spiega un amico che fa il fisico nucleare.

 

Ultim’ora del tg: Trump ha appena lanciato una superbomba da undici tonnellate sull’Afghanistan. Ne conosceremo le conseguenze al prossimo notiziario.

A questo punto, prima di lasciarmi ridurre ad un semplice e anonimo ammasso di particelle organiche, vorrei lanciare un appello alle consorti di Donald e Kim: vi è toccata la mission impossible di vivere al fianco di due mentecatti che si credono onnipotenti come gli dei dell’olimpo, quindi solo voi potete fare qualcosa per fermarli. Vabbé che sono buddista e pacifista, ma se fossi in te Melania farei volare via il piumino-toupet del tuo Donnie a colpi di mazza da baseball; e se fossi al posto di Ri Sol-ju spedirei a pedate quel pallone gonfiato di Kim fino al pianeta Marte (distanza dalla Terra: 75 milioni di km). Certe volte, purtroppo, una risata non basta.

Virginity Soap

 

“ll sapone della verginità (in inglese, virginity soap) è un sapone creato per donne che desiderino ricompattare la membrana dell'imene lacerato, simulando la verginità anatomica”. Wikipedia mi informa anche che sono soprattutto le donne africane e orientali a comprarlo. Segno che in un sacco di posti sulla Terra è ancora considerato un valore resistere a tutte le tentazioni e arrivare vittoriosamente vergini al matrimonio. Ma se per tradizione o religione o altro sei costretta a subirlo, un matrimonio, arrivarci illibata è un obbligo, non una scelta. Altrimenti paghi un prezzo, salato. Molto vicino a noi, in Libia, le ragazze nubili sospettate di trasgredire alla morale vengono rinchiuse in centri di “riabilitazione sociale” e sottoposte senza consenso al test per accertarne la verginità. Fare zina - ovvero fornicare - con una persona che pure si sposerà in futuro è una forma di disobbedienza verso Allah, risponde l’amministratore di un forum islamico on-line ad un giovane che chiede se può avere rapporti prematrimoniali con la futura moglie. Passibile, in caso, di fustigazione. In Siria il kit fai-da-te per ricostruirsi la verginità, prodotto da una ditta cinese, ha avuto un tale successo di vendite che i servizi segreti, annusato lo spettro di una temuta rivoluzione sessuale, hanno cominciato a braccare spietatamente gli spacciatori del kit. Del resto, quando il rischio è quello di essere lapidata - come in Nigeria, Arabia Saudita, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Pakistan, Afghanistan, Yemen - sei disposta a tutto pur di riavere la tua verginità.
All’ epoca d’oro della Rivoluzione Sessuale in occidente, invece, eravamo disposte a tutto (o quasi) pur di perderla, e con meno sofferenza possibile, grazie a complici vari ed eventuali: l’amico del fratello maggiore, il compagno di classe bruttino ma gentile, il Primo Amore, il vicino di tenda in campeggio, il fidanzato dell’amica del cuore. Al Sud, però, arrivare illibate al Giorno Più Bello della Tua Vita continuava ad avere ancora un senso, eccome. Imposto, il più delle volte. E l’abito bianco pieno di pizzi e di ricami era la più abbagliante dimostrazione di verginità agli occhi del mondo. “E’ ancora incellophanata” commentavano sottovoce gli amici dello sposo, un po’ sfottendo e un po’ invidiando. Negli anni ’70 per mia madre, nata in Calabria ma trapiantata a Roma da una vita, esistevano solo due categorie di ragazze e dovevano restare ben distinte nella nostra mente di figlie adolescenti e scalmanate: quelle per bene (vergini e frequentabili) e quelle navigate (che non erano più vergini, quindi non frequentabili, come se fossero contagiose). Io comunque, navigate o meno, frequentavo solo liceali con velleità rivoluzionarie come me. Messa da parte la militanza femminista, eravamo troppo indaffarate ad occupare case e fabbriche per sdilinquirci su argomenti da donnette come l’amore e la verginità. Ma quando ero da sola, confesso che leggevo di nascosto i fotoromanzi: lestofanti bellocci che seducevano segretarie ingenue, per fortuna consolate da giovanotti onesti e rispettosi; povere ma belle, e rigorosamente illibate, che incontravano Principi single pronti ad impalmarle… Il lieto fine, almeno lì, c’era sempre. “Like a virgin/ touched for the very first time …” cantava negli anni ’80  Madonna, con crocifisso al collo e faccia da impunita. Poi per un po’ mi sono distratta dal resto del genere femminile: niente più serate con le amiche a base di sfoghi su fidanzati e amanti. Ho sgobbato moltissimo sul lavoro, mi sono sposata col Principe Azzurro e ho avuto una figlia. Insieme a lei, attraverso i suoi occhi di ragazzina, mi sono ritrovata a fissare in tv, incredula e soprattutto invidiosa , le magnifiche Barbie che sfilano per Victoria’s Secret (la marca di lingerie extra-lusso made in USA), con grandi ali di pizzo appoggiate sul loro perfettissimo ‘lato B’: Angeli sottili, sexy e virginali allo stesso tempo, così intoccabili che nemmeno la Madonna. Come vorrebbe tanto essere mia figlia. E infatti ora ce ne sono parecchi di ragazze e ragazzi - dicono gli articoli sui giornali - che scelgono una castità esibita, il loro schiaffo in faccia a noi genitori ex libertari e fornicatori. Ma quale paura ti può spingere a mortificarti tanto? A difenderti dall’altro, dal suo calore, dalle emozioni che possono scoppiarti dentro? Forse la verginità diventa il tuo ponte levatoio sempre alzato contro tutto e tutti, per mantenerti puro, tenerti lontano dal male che ti può fare il mondo. Forse a quel punto ti basta solo “…il tuo cuore ardente, null’altro.” come scriveva Garcia Lorca, il più dolce dei poeti. Forse perdendo la verginità hai paura di perdere te stessa, te stesso. Perdere in effetti è una brutta parola, di solito si perdono le chiavi di casa o il portafogli oppure i treni, che poi magari non passano più. Io invece voglio inventare un significato tutto diverso alla verginità: occhi puliti per guardare il mondo, per stupirsi di ogni colore e ogni forma come se fosse la prima volta che li vedo. Sono vergine ogni volta che inizio un’altra storia perché non so il tuo sapore, voglio scoprire chi sei, assaggiare la tua vita. Vergine di fronte ai versi di un poeta sconosciuto, ad una nuova canzone, all’ennesima sfida, alle solite parole che questa volta ascolto in un modo diverso. Mi piace questa verginità che non è più barriera, ma apertura.

La guerra dei grandi

 

5 aprile 2017. Il tg di Rai3 apre con poche parole che ghiacciano il sangue nelle vene: pare che qualcuno abbia detto ai genitori dei bambini morti che gli effetti del gas - usato nei bombardamenti appena avvenuti a Idlib - svaniscono dopo 24 ore. Molti genitori con i bambini morti in braccio aspettano al cimitero che i loro figli si risveglino.

Che altro c’è da dire?

Dal 2011 la guerra civile (si può mai chiamare civile, una guerra?) sta devastando la Siria e questo è l’ennesimo massacro, terribile, compiuto a Khan Sheikhoun, una città occupata dai ribelli al regime di Assad nella provincia settentrionale di Idlib. Le foto che arrivano da lì mostrano i corpi accatastati dei bambini, morti a bocca aperta mentre cercavano di rubare l’ultimo sorso di aria prima di soffocare per aver respirato i gas neurotossici usati nei bombardamenti. Il governo accusa le numerose fazioni che  gli si oppongono, estremisti della Jihad provenienti dal resto del mondo, al quaediani locali, guerriglieri iracheni dello Stato Islamico; la Russia difende Assad, gli USA decidono di rispondere bombardando a loro volta una base aerea siriana con 59 missili, il dittatore Erdogan fa la voce grossa contro Putin, l’Europa balbetta. Almeno per una volta, più che dalla fabbrica mediatica delle menzogne, preferisco capire che cosa significa questa guerra dai numeri nudi e crudi (in gran parte resi noti dal Syrian Centre of Policy Research):

-74  sono i morti accertati e 557 i feriti, nel massacro di Idlib

-500.000 i morti dal 2011 ad oggi, tra cui almeno 13.000 bambini e 8.900 donne

-6,3 milioni sono i siriani sfollati

-4.000.000 sono in fuga verso l’estero (Turchia ed Europa)

-800 sono gli operatori sanitari morti

-6.000 combattenti delle varie fazioni in guerra risultano prigionieri o dispersi.

Tutto in nome di un gasdotto da costruire nel 2009 tra Quatar e Turchia, che avrebbe dovuto passare attraverso la Siria, con l’obiettivo di vendere gas all’Europa. Assad per tutelare gli interessi dell’alleato russo, esportatore a sua volta di gas in Europa, respinge la richiesta del Quatar. Anzi, si accorda con Iraq e Iran (detentore del più grande giacimento mondiale di gas naturale) per costruire un gasdotto che vada dall’Iran alla Siria, dunque al Mediterraneo. In gioco ci sono gli interessi economici e politici di tutti, Stati Uniti, Russia, Turchia e via dicendo, in un groviglio così complicato da far tremare i polsi. Fatto sta che per il controllo delle vie del gas in pochi anni è stato praticamente sterminato un popolo. “Con la guerra ci si guadagna due volte: si vendono armi e poi c’è la ricostruzione” ha detto l’arcivescovo di Aleppo Joseph Tobji nel 2016, durante un discorso ufficiale. Tutto il resto, su alleanze & conflitti, potete approfondirlo ogni giorno (purtroppo) su giornali e tv, resta il fatto che come sempre muoiono soprattutto le persone comuni. Gente che non ha deciso di combattere, per un credo o un interesse di qualsiasi tipo, ma che subisce fame, malattie, bombardamenti, torture, per gli interessi di altri. Negli ospedali siriani rimasti in piedi non ci sono neppure più le medicine. “Le intossicazioni da gas vengono curate con l’acqua, facendoti lavare il viso e spogliandoti dei vestiti. Non abbiamo neanche le mascherine anti gas”, avverte il giornalista Omar Najdat, ricoverato in un ospedale di fortuna ad Idlib dopo l’attacco aereo. Un altro reporter siriano denuncia che, non appena cessati i bombardamenti, alcune ambulanze hanno portato i feriti in varie strutture ospedaliere della regione. Trenta feriti invece sono stati caricati in direzione della Turchia. Arrivati al confine hanno scoperto che Ankara lo aveva chiuso.

Sono trenta, fino ad ora, anche i bambini siriani uccisi dai gas tossici. Ma domani ce ne saranno altri, da qualche altra parte del mondo: saltati in aria pestando una granata a Kobane, dilaniati da una bomba ad Aleppo, centrati dal kalashnikov di un guerrigliero della guerra santa o di un soldato dell’esercito regolare (che differenza fa chi ti uccide?), oppure sommersi dall'acqua del Mediterraneo mentre scappano dall’orrore dell’ennesima guerra. Voluta dai grandi.

Dacci oggi la nostra eroina quotidiana/2

 

Per amore, solo per amore

 

“Ammazzatela subito o ci porterà una valanga di guai”, ordina il boss della ‘ndrangheta Rocco Pesce ai suoi familiari, durante un colloquio nel carcere in cui è rinchiuso. Si riferisce a sua nipote Giuseppina detta Giusy, che ha deciso di evadere dalla sua vita e inventarsi un futuro diverso da quello che l’aspetta come affiliata di una delle ‘ndrine più potenti della provincia di Reggio Calabria. I Pesce hanno accumulato una fortuna controllando i traffici legati al porto di Gioia Tauro, lo smercio di droga, le estorsioni, i mercati agricoli della provincia, gli appalti: non si fanno mancare niente. La fitta rete dei rapporti interni alla famiglia è la loro forza, e ci sono dentro tutti, il padre di Giusy, il marito, il suocero, un esercito di cognate e cognati, ma soprattutto la madre e la sorella. Lei, Giusy, all’epoca ha poco più di trent’anni, una faccia imbronciata da ragazzina e allo stesso tempo la vita di una donna adulta con tre figli, due femmine e un maschio ancora piccolo. Cresciuta a pane e ‘ndrangheta, nel 2010 viene arrestata per i reati di intestazione fittizia di beni e associazione mafiosa: quando suo padre Salvatore - uomo di punta dei Pesce - è in galera, Giusy trasmette i suoi ordini agli uomini della famiglia.

La condannano a quattro anni di pena, ma lei non ce la fa a stare lontano dai figli e tenta due volte il suicidio. Le fanno capire che l’unica strada per tornare prima possibile da loro è collaborare con la giustizia: «Se io non cambio strada e non li porto con me, quando uscirò il bambino potrebbe già essere in un carcere minorile; le due figlie invece dovranno sposare uomini di ‘ndrangheta, saranno costrette a seguirli», e magari dovranno anche sopportare le loro botte, come è successo a lei col marito Rocco. Giusy decide che vuole una nuova vita ma così firma la sua condanna a morte, come hanno già fatto dal dopoguerra ad oggi altre centocinquanta donne di mafia - una lista lunga così - uccise perché si sono ribellate o hanno deciso di collaborare con la giustizia. Come l’amica di Giusy, Maria Concetta Cacciola, figlia del boss di una ‘ndrina collegata ai Pesce, che a poche ore dalla partenza per una località protetta, con le valige già pronte, si è chiusa in bagno e ha mandato giù a sorsate dell’acido muriatico. A forza di violenze e ricatti, padre madre e fratello l’hanno suicidata.

Tutti del resto conoscono la regola: chi si pente è una macchia che soltanto un suo familiare può lavare, col sangue. ”E’ una storia di famiglia e la risolveremo noi”, promette infatti il fratello di Giusy alla loro dolce nonnina, che approva con entusiasmo. Il modo per far tornare a casa Giusy, che è entrata nel programma di protezione, c’è: basta farle capire che se continua così perderà i suoi figli, affidati ai parenti del marito mentre lei è in una località segreta. Per loro nessun contatto con Giusy, niente vestiti, cibo col contagocce,  tante botte: così si metteranno bene in testa che cosa succede se hai una mamma indegna & cattiva. E pensare che noi madri qualunque ci sentiamo indegne & cattive se solo rifiutiamo ai nostri pargoli l’ennesima merendina, il motorino, o l’ultimo modello di cellulare. Immagino che coltellata al cuore, quando Giusy ha letto la lettera di sua figlia (scritta ovviamente sotto dettatura dei parenti): “Ti voglio bene mamma però quello che stai facendo è sbagliato”. Sbagliato perché non si possono rompere regole tribali irrinunciabili e sacre, non si può mettere l’amore al posto dell’obbedienza.

Se hai tutti contro, soprattutto i tuoi bambini, è difficile non mollare e ad un certo punto Giusy, pur di tornare a casa da loro, inaspettatamente ritratta le dichiarazioni fatte ai giudici. Ma l’illusione di aver fatto la cosa giusta dura poco: il tempo di capire che il suo tradimento può essere cancellato solo accettando di morire. Succederà per mano di suo fratello, oppure di suo zio? O toccherà a sua madre ammazzarla? E quando?

La cosa incredibile è che in quell’inferno Giusy riesce ad innamorarsi di un uomo conosciuto sul web e che non c’entra niente con la sua cosca. Insieme a lui evade per un giorno intero dagli arresti domiciliari, fa scorta di aria e di coraggio, poi si ripresenta davanti ai giudici. Questa volta racconta tutto, denuncia nomi, gradi e alleanze del gotha mafioso locale, e manda i Pesce al completo  - parenti & affiliati - dietro le sbarre, per un totale di 521 anni.

Giusy, l’unica pentita di ‘ndrangheta sfuggita alla vendetta dei suoi ex compari, ce l’ha fatta a costruirsi il suo lieto fine. Chissà se quelle come lei lottano più per amore di se stesse, o per amore dei figli, oppure per amore di un uomo. Chissenefrega, basta che vincano.

Carosello

 

- Cosa farai da grande?

- Carosello.

Avrei risposto così, se da bambina qualcuno me lo avesse chiesto. E infatti da grande l’ho fatto, Carosello: per vent’anni ho lavorato come art director in grandi agenzie internazionali di pubblicità, guadagnato tanti soldi, conosciuto un mucchio di gente interessante, vinto premi prestigiosi. Poi, era Natale, l’agenzia in cui lavoravo in quel momento mi ha chiesto le dimissioni. Il nuovo direttore creativo in arrivo da Milano avrebbe portato con sé il suo art director. Un ragazzo giovane. Io avevo quasi quarant’anni, e un radioso futuro alle spalle. Del resto sapevo fare solo quello, l’art director, e soprattutto volevo fare solo quello: vendere merendine, automobili, detersivi, tagliaerba, assorbenti femminili, pasta, viaggi aerei… C’era tutto ciò che serviva ad essere felici, in quel mio mondo amatissimo che ora mi sputava fuori. Il mio paese dei balocchi. E giù lacrime, che però non riempivano il buco nero.

Il buddismo, che pratico ormai da molti anni, dice che non importa quante volte cadiamo. L’importante è rialzarsi ogni volta.  

Io mi sono rialzata guardando la tv: sono rimasta folgorata da “Un posto al sole”, la famosa soap opera. E proprio come in una soap, nel reparto maternità dell’ospedale dove aspettavo che mia figlia Nina nascesse, accanto al mio letto c’era una donna che conosceva uno sceneggiatore. Le coincidenze, lo dico da buddista, non esistono e così mi sono buttata. Al test di scrittura a cui - grazie a lui - ho partecipato qualche tempo dopo, mi sono classificata tra i primi dieci su ottanta sceneggiatori di tutta Italia. Mai scritto una parola prima di allora, giuro. E invece poi le ho scritte quasi tutte, le soap italiane - Vivere, Cuori Rubati, Sottocasa, Incantesimo - fino a quando non sono passate di moda. Certi desideri non mi nascono nella testa, vengono proprio fuori dalla pancia, e sono quelli che realizzo più alla svelta. Come quando ho pensato: mi piacerebbe tanto scrivere una serie gialla e, tempo qualche settimana, mi hanno chiamato a fare “I delitti del cuoco” con Bud Spencer. Malgrado la paura di non essere all’altezza, ce l’ho fatta. Io ne ho un sacco di paure, grandi paure, come quella dell’aereo, o di morire di fame, o di diventare cieca, però le sfide difficili mi piacciono lo stesso. E allora mi sono messa in testa di diventare autrice di un programma televisivo tutto mio, così è nata la docu-fiction per RaiStoria sull’arte rubata. E questo è un altro sogno che ho realizzato, perché l’arte è sempre stata la mia grande passione fin da bambina.

Confesso però che il Primo Amore, quello che non si dimentica mai, è stato la lettura. Leggo di tutto, a velocità supersonica, come un’affamata, e i prestiti tra amiche ad un certo punto non mi bastavano più. Soldi non ne avevo perché non stavo lavorando e comunque i libri costano tanto. Confesso che da ragazzina qualcuno l’ho anche rubato, nelle librerie. Ma t’immagini ficcarsi un romanzo in borsa ora, a sessant’anni, e venire beccata mentre esci alla chetichella dal negozio? Così un bel giorno ho pensato che sarebbe stato bellissimo leggere gratis, mi è uscito proprio dalla pancia così, questo desiderio:  l e g g e r e   g r a t i s. E in un posto più comodo delle biblioteche pubbliche. Siccome abito in un condominio popolare con un sacco di famiglie, non sapevo che la stessa idea, proprio quella lì, l’avevano avuta anche altre persone. Ci siamo messi insieme e abbiamo organizzato una bella biblioteca condominiale dove prima c’erano i vecchi lavatoi del palazzo. Da tre anni facciamo convegni, presentazioni di libri, feste, lezioni di yoga: a titolo gratuito e aperti a tutti. Amici, parenti e vicini di casa ci hanno regalato gli scaffali, i tavoli, le sedie, i tappeti e naturalmente una montagna di libri. Sono così tanti che qualche sabato mattina siamo andati a regalarne alcuni per le strade del mio quartiere, Porta Portese. La cosa proprio strana è che tante persone non li volevano nemmeno gratis. Forse è difficile accettare un regalo da uno sconosciuto, mi sono detta. Forse la gente pensa: e se dietro c’è la fregatura? Insomma, ha paura. Io credo che dovremmo smettere di avere paura: dei regali, degli abbracci, del futuro, delle lacrime, degli altri, dell’amore, di essere felici… Paura è una brutta parola, una prigione fatta di pensieri vecchi. Che magari non ci servono più ma ai quali siamo troppo affezionati per buttarli via: non me lo merito, non ce la farò mai, perché proprio a me? Che spreco di energie.

Venerdì 17 febbraio prenderò l’aereo, il posto è già prenotato e se solo ci penso mi sale su dalla pancia una paura tremenda. Venerdì 17… ma chi me l’ha fatto fare?  Eppure andare a Palermo è un desiderio che ho da tanto tempo. Voglio che vinca questo desiderio, non la paura.

E quando succede, è bellissimo essere me.

Lotto marzo

raccontato a mia figlia

 

C’era una volta una folla di ragazze ribelli e coraggiose che si chiamavano Femministe. L’8 marzo di ogni anno affollavano le piazze delle città per festeggiare il compleanno di tutte quelle che erano stufe di starsene zitte, che volevano essere considerate Persone e non soltanto corpi destinati alla riproduzione, al piacere dell’altro, alla fatica senza gioia di ogni giorno. Come invece erano state le loro bisnonne, nonne, madri: insomma, ognuna aveva il suo albero genealogico di femmine infelici. Noi non ci ridurremo mai così, si dicevano tra loro le Femministe, e lo giuravano a se stesse: Manco morte! Festeggiavano con canti e girotondi, portando dentro il cuore anche quelle che in piazza non c’erano perché nel frattempo si erano stancate di lottare, oppure erano irraggiungibili nelle loro prigioni quotidiane. Celebravano con commozione anche le povere operaie morte agli inizi del ‘900 nel rogo di una fabbrica americana, rinchiuse là dentro dal Padrone per impedire loro di partecipare ad una manifestazione di piazza in nome dei propri diritti, visto che all’epoca non ne avevano praticamente nessuno. In realtà su questo le Femministe facevano un po’ di confusione: quelle poverette morirono, sì, ma in un altro incendio e in un’altra fabbrica e lì dentro, tra le fiamme, non c’erano solo donne (molte di loro, immigrate italiane) ma anche operai maschi. Questa però, come direbbe Carlo Lucarelli, è un’altra storia. Le Femministe ne vinsero tante di battaglie, tutte grandi e importanti: divorzio, aborto, la do a chi mi pare… Anch’io feci la mia parte, e fin qui ho vissuto (abbastanza) felice e contenta.

Dài, fai la tua solita battuta: Vuoi la medaglia, madre?  Sì, in realtà la voglio,‘sta medaglia perché ho sempre lavorato sodo e soprattutto ho fatto nascere te, testarda bella e dolcemente complicata (Mannoia docet). Nel frattempo  - senza alcun rimpianto, lo confesso - mi sono un po’ disinteressata dell’8 marzo. Anche perché negli ultimi anni ho abbinato la fatidica Festa della Donna all’immagine delle cenette tra sole femmine, cosa che aborro, e ai mazzolini di mimose.  Che, pensandoci bene, sono una fantastica metafora delle donne: si trovano da per tutto, costano poco, sembrano fragili e invece sono belle resistenti.

E se per un giorno, visto che non contiamo niente, ci fermassimo? si sono dette le mujeres argentine scese in piazza nel 2016 contro la catena di stupri e femminicidi che stavano avvenendo laggiù. L’idea ha fatto il giro del mondo ed è piaciuta a tutte. Che siano lavoratrici dipendenti, precarie, autonome, intermittenti, oppure disoccupate, studentesse, casalinghe, mogli, l’8 marzo 2017 sarà una giornata senza di loro, cari uomini. Anche senza di me, che almeno per oggi non smanetterò h 24 sul computer, non correrò a comprare il pane un minuto prima che chiuda il negozio, e finalmente potrò guardare in pace le 8 puntate della mia serie tv preferita tuttediseguito. Poi via, in piazza a difendere il valore delle differenze e contro l’oppressione lo sfruttamento il razzismo l’omofobia. “E’ una regola che vale in tutto l'universo / chi non lotta per qualcosa ha già comunque perso / e anche se il mondo può far male / non ho mai smesso di lottare.”  (ancora Fiorella Mannoia). Quindi dal 9 marzo in poi avremo parecchio da fare, cara figlia. Rimbocchiamoci le maniche e ancora una volta, come sempre, lottiamo.

Madame

la Présidente

 

A maggio, il popolo francese sceglierà se l’Unione Europea merita ancora un futuro oppure diventerà presto un “mauvais souvenir”, un brutto ricordo, come lo definisce Marine Le Pen, pronta allo scontro finale col suo agguerrito antagonista, l’eroe liberal Emmanuel Macron, per la conquista del trono di Presidente della Repubblica Francese. Un programma semplice, quello della Le Pen, che parla alla pancia della gente: blocco dell’immigrazione, ritorno alla compianta moneta nazionale, difesa in salsa patriottica del patrimonio storico e culturale, tutto al grido di ‘prima i francesi!’. Alla gogna tutti i principi progressisti, rottamati gli ideali universalisti di cui si è nutrita per anni l’opinione pubblica sinistrorsa e democratica sognando la libera circolazione di persone, idee, diritti, merci. Marine, dritta e fiera sulla sponda della Senna in attesa che passi il cadavere sbertucciato della gauche, sembra proclamare al mondo “io sapevo già che sarebbe finita così”. Ma ha anche saputo aspettare che tutti gli altri se ne accorgessero per poi, ovviamente, correre a votarla. Il problema è che l’Europa, ci spiega col suo sorriso serenamente immodesto, non permette che ogni popolo prenda in mano il proprio destino. Lei al contrario è campionessa di “Prendere in Mano il proprio Destino”. Chiedete a suo padre, l’88enne Jean-Marie, che Marine ha brutalmente defenestrato dal Front National, da lui fondato nel 1972 e guidato - a suon di provocazioni contro borghesi, ebrei e compagnia bella -  fino a che la figlioletta non gli ha strappato di mano il potere. Ed è riuscita, solo lei, nella missione impossibile di dédiaboliser il FN cambiando i suoi imbarazzanti connotati da accozzaglia di ex collaborazionisti, neofascisti, aspiranti golpisti, nostalgici dell'Algeria francese, in una più dignitosa e rassicurante nouvelle droite. E non importa che i soldi per finanziarla escano in gran parte dalle tasche di Frédéric Chatillon, imprenditore ed ex picchiatore fascista. Un milione e trecentomila follower su twitter e quasi altrettanti like sulla sua pagina Facebook, hanno premiato Marine: è la regina indiscussa della cosiddetta fasciosfera, la nebulosa di siti che - secondo due noti giornalisti francesi - utilizzano il web per diffondere in modo capillare la visione lepenniana del mondo, tra bufale, ipotesi inverificabili e complottismi vari. Incredibile ma vero, un passo falso lo ha fatto anche Marine, attivissima sui social: le foto di trucide esecuzioni dell’Isis che ha diffuso tempo fa sul suo profilo Twitter le hanno fruttato di recente la revoca (votatissima) dell’immunità da parte dell’Europarlamento, di cui è una deputata. Lei però non si scompone nemmeno quando ha tutti contro, va avanti dritta per la sua strada su decollété basse ma non troppo, con la messa in piega perfetta, il filo di perle al collo e lo sguardo affilato del giocatore di rugby che in campo sta per darti la spallata letale. Del resto sapete che cosa significa Le Pen in bretone? ‘Capo’. Marine la stoffa del condottiero ha dimostrato di averla, eccome, su ogni palco da cui ha arringato i suoi fedelissimi, che l’intellighenzia di sinistra e dintorni aveva fin qui considerato degli impresentabili, liquidandoli come un manipolo di esagitati e di nostalgici nazisti. Mai dire mai, ricordiamocelo: è tornato, incredibilmente, anche il loro momento e chi era ai margini ha risposto alla chiamata imperiosa di Marine riconquistandosi il suo posto al sole. Lei intanto, oltre ad averle suonate a tutti gli avversari sul suolo patrio, davanti alle telecamere di una tv italiana ha messo k.o. pure D’Alema, il Richelieu de noantri, riempiendoci di vergogna mista però a bieca soddisfazione (almeno, nel mio caso). Ma come fai, Marine, a mantenere sempre quello sguardo fiero e perforante, perfino mentre dici che Salvini ti manda in estasi (sic)? Non ti scappa da ridere? No, decisamente le risate non si addicono alla tua faccia da eroina di tragedia greca, capace di uccidere - simbolicamente, naturellement - il padre e conquistare il suo scettro senza, a quanto si dice, un briciolo di umana compassione. Per dimostrare che non sei un mostro insensibile ma provi anche tu dei sentimenti, hai messo su piazza le foto in cui baci (sempre con un po’ di protervia, a me pare) il tuo compagno Louis Aliot. Poveraccio, Louis - ex avvocato di origini un po’ ebraiche, un po’ nordafricane e un po’ pied noir, ovvero i francesi delle colonie nordafricane - che con un  pedigree del genere può solo rimanere nell’ombra (la tua). Del resto, cara Marine, con quella faccia lì meglio averti amica che nemica.

La domanda che mi faccio è: possibile che (quasi) tutte quelle che conquistano il potere assomiglino più a degli uomini che a noi donne qualsiasi? La mia risposta, magari banale, è che forse quel potere riescono a prenderselo proprio perché hanno la testa, i pensieri, da uomo. Tuttavia c’è una cosa di te, Marine, che mi piace molto: il simbolo che hai voluto per la tua campagna presidenziale, la rosa blu. Non perché sia una beffarda, sacrilega, commistione tra la rosa rossa dei socialisti e il colore della destra, per l’appunto il blu (per inciso, sapete cosa ha twittato il vecchio Le Pen? “Keine Rose ohne Dornen!”, ovvero: “Non c’è rosa senza spine”). Chissà se invece, sotto sotto, Marine l’ha voluta blu sapendo che nel linguaggio dei fiori la rosa blu significa rendere possibile l'impossibile. Per te, che la destra estrema vinca - sdoganandosi in modo definitivo - sul sogno europeista di Macron, “En marche” alla testa di tutti coloro che, disillusi dalla politica, vorrebbero ricominciare a crederci. Io invece vorrei che la promessa di quella rosa blu valesse per tutti quanti noi: che il desiderio di essere felici vincesse contro le nostre paure, le ferite, i buchi neri, rendendo possibile ogni sogno. Au nom du peuple.

Dacci oggi la nostra eroina quotidiana/5

 

Sebben che siamo donne

 

In mano non ha il solito cellulare ma un kalashnikov, accessorio piuttosto insolito per una ragazza di vent’anni. Niente tshirt griffata, lei porta una casacca militare perché è una combattente dell’YPJ, che in kurdo significa Unità di Difesa delle Donne. E’ solo una foto sul web, e le foto non parlano, ma mi piacerebbe tanto chiederle una cosa: perché l’Isis, che non teme né le minacce delle grandi potenze né l’indignazione del mondo intero per la sua ferocia, ha paura di una ragazzina come te? “Molti jihadisti credono che chi viene ucciso in battaglia da una donna non andrà nel paradiso dove lo aspettano le famose 72 vergini, ma all’inferno. Meglio che continuino a crederci, così ci temono ancora di più. In realtà ai nostri uomini fa paura qualsiasi donna che un bel giorno si stufa di essere la schiava di padri fratelli e mariti”. E siete tante nell’YPJ?

“Quasi diecimila, soprattutto ragazze giovani ma ci sono anche donne più grandi che hanno mariti e figli. Non importa chi siamo state fino al momento in cui ci arruoliamo, qui ci sentiamo tutte uguali e tutte  libere, finalmente”. Certo che addestrarsi ogni giorno, come dei veri soldati, dev’essere dura…

“Ma noi siamo dei veri soldati”. Hai ragione, eppure in automatico ho pensato che un soldato è un soldato e invece una donna col fucile è ‘come’ un soldato. Certi pregiudizi verso le donne, sotto sotto, li ho persino io. A proposito, che pensano di voi i compagni di lotta dell’YPG, che sono tutti maschi?

“Se non li avessimo aiutati noi, la città kurda di Kobane invece di venire liberata dopo centotrenta giorni sarebbe ancora sotto l’assedio dell’Isis!  Ma no, scherzo… Gli uomini ci ammirano per il nostro coraggio, ma soprattutto perché siamo molto pazienti”.

A chi lo dici. Ancora me lo ricordo quando cercavo di addormentare mia figlia. Dopo tante di quelle ninnenanne che manco lo Zecchino d’Oro, appena la posavo nella culla faceva partire l’urlo da indemoniata e bisognava ricominciare daccapo. Ma non capisco, a che serve la pazienza quando stai combattendo contro qualcuno? “Serve eccome: noi donne sappiamo aspettare, non molliamo mai, per questo siamo dei cecchini formidabili”. Accidenti, non ci avevo pensato.

“Fino a qualche anno fa neanche io avrei mai pensato di riuscire a maneggiare un fucile, figurati sparare a qualcuno. Poi ho visto morire mia sorella, i miei cugini, i vicini di casa. E in quel momento io non ho potuto fare niente per salvarli, capisci?”

E come posso capire? La mia vita non ha niente a che fare con tragedie del genere. Per fortuna. “Così mi sono arruolata nel YPJ. Uccidere è sbagliato, lo so, ma che altro possiamo fare per difenderci, per difendere la nostra gente da questo massacro? Ci uccidono, ci scacciano, ci perseguitano da secoli: guarda che noi kurdi rischiamo di scomparire dal mondo e, con noi, le nostre tradizioni, la nostra lingua. A scuola ci costringevano a parlare e scrivere solo in arabo, sennò venivi picchiata”.

Sembra un mondo lontano anni luce dal mio, dal nostro, e invece da Roma al Kurdistan ci sono poco più di 2000 chilometri, come per andare a Helsinki oppure a Mosca. Si imparano un sacco di cose scrivendo un articolo. Invece l’Occidente in tutte le sue declinazioni – Usa, Russia, Europa e via dicendo – non impara mai un accidente dalla sua stessa storia e per sconfiggere il terrorismo islamico, o di qualsiasi altro genere, usa la solita infallibile ricetta: bombardare un paese. E la volta dopo, un altro.

“Usano l’alibi del terrorismo solo per fare i propri interessi, anzi spesso sono loro che hanno creato le condizioni per cui nascessero e si sviluppassero i vari Daesh e Al Qaeda, e continuano a rifornirli di armi. Le stesse con cui poi i terroristi li uccidono. Vogliono che la gente abbia sempre un nemico, qualcuno da odiare – in questo momento noi musulmani – così non pensa ai propri problemi, al lavoro che diminuisce, ai diritti che gli vengono tolti”. 

E’ vero, è tutto più facile se la colpa di quello che ti succede la dai ad un altro, anziché prenderti al centopercento la tua responsabilità. Ci casco sempre anch’io.

“E’ una bugia che l’Islam sia la religione oppressiva e misogina sbandierata dall’Isis. Anche noi kurdi in gran parte siamo musulmani però non siamo come loro. Lo dimostra il fatto che tante donne per loro scelta hanno potuto lasciare tutto e arruolarsi nell’YPJ. Non è stato facile lottare contro le nostre stesse tradizioni, che danno al maschio tutto il potere, in casa e fuori. Ma noi abbiamo dimostrato che valiamo altrettanto, che sappiamo combattere, difenderci da sole e difendere anche loro, gli uomini”. Basta che una sola persona cambi atteggiamento, per contagiare via via tutti gli altri fino a cambiare il karma di questo povero tormentato mondo, è solo questione di crederci. Ma per fare il primo passo in certi casi serve un coraggio da leoni. “Sì che ci vuole coraggio per lasciare il proprio villaggio, la famiglia, anche i figli magari, e andare a combattere non sapendo se tornerai a casa o diventerai una delle tante martiri uccise in battaglia. Però noi abbiamo preso una decisione, è questo che ci rende forti”. Al di là di imparare a maneggiare un kalashnikov, in fondo anche noialtre nel nostro piccolo ci alleniamo ogni giorno a decidere e poi agire di conseguenza. Salvo poi avere ottocentomila ripensamenti, ma ce la possiamo fare a migliorare. E tu come stai messa, a ripensamenti? “All’inizio mi mancava tutto di casa mia. Però quando la gente di questa zona ha cominciato a capire che eravamo lì per proteggerli, ci ha accolto come figlie. Sono poveri ma ci hanno dato tutto l’aiuto che potevano, sennò certe volte non avremmo avuto neanche da mangiare. Adesso ci siamo organizzate e ogni brigata dell’YPJ vive in una piccola caserma. Nella nostra, oltre a fare esercitazioni militari e a studiare, coltiviamo un po’ di terra e alleviamo animali. Si sta bene, qui. Ma da un momento all’altro può esserci un attacco, quindi devi essere sempre pronta a combattere, e anche ad uccidere. Oppure a morire”.

Io ancora mi chiedo, alla mia veneranda età, se sarò mai pronta a vivere. Ma questo mi vergogno a dirglielo, alla ragazza della foto.

Chissà se si chiama Tehelden, Efelin, Nessrin, Meryem, oppure Sewsen: per me le donne dell’YPJ sono tutte quante eroine quotidiane. Pensate che nei posti in cui vivono hanno aiutato la gente ad organizzarsi in piccole comunità che accolgono chiunque senza fare distinzioni di razza o religione e in cui le donne cominciano a venire trattate con lo stesso rispetto degli uomini. Come Eva nacque dalla costola di Adamo (la solita vecchia storia, ma qui ci sta bene), le ragazze dell’YPJ sono nate da una costola del movimento di uomini combattenti dell’YPG, ma che importa? Meno male che sono nate.

Dacci oggi la nostra eroina quotidiana/3

 

Di necessità, virtù

 

Attenzione, gente: una pericolosa declutter seriale gira per il web. Nome: Alejandra, Cognome: Costello. Non lasciatevi ingannare dal suo aspetto innocuo di sciuretta trentenne con la fissa per il rosa shocking, che sia una fascia per capelli o una tenue de soirée elegante. Ha occhi trasparenti, chioma da Pocahontas disneyana e, segno particolare, una bocca troppo larga per essere vera. Semmai vi intendeste di astrologia, sappiate che è della Vergine (e con questo ho già detto tutto). Per la cronaca, decluttering è un neologismo anglosassone traducibile con il più tradizionale e rassicurante Fare Piazza Pulita di Cose Inutili, un’arte sopraffina ma poco coltivata nelle case della gente normale. Per fare un esempio terra terra: ancora non riuscite a liberarvi della maglietta zebrata che vostra madre ha nascosto in cantina quando avevate 12 anni per impedirvi di indossarla infangando il nome di tutta la famiglia? Conservate ancora il vasetto di Das che avete fatto all’asilo (nel ’62), oppure la pelliccia tarlata di vostra nonna alta un metro e mezzo mentre voi siete una stangona? E’ ora di darsi al decluttering.

Alejandra, con i suoi settecentocinquantamila seguaci su Youtube, è la guru indiscussa anche dell’organizing, altra virtuosissima pratica che consiste nel non lasciare fuori posto neanche uno spillo. Tanto che si è guadagnata il titolo di Donna Più ordinata del Mondo e nessuna delle sue numerose web-emulatrici è ancora riuscita a scalzarla dal trono. Lei del resto è un luminoso esempio per tutte noi: anziché farsi curare per il suo disturbo ossessivo/compulsivo da uno psicoterapeuta bravo, è riuscita a convertire la sua mania dell’ordine in un geniale business: ha inventato lei i tutorial in cui ci insegna come rendere la nostra caotica dimora, o l’ufficio (se ancora ne avete uno, visti i tempi) oppure il garage, in luoghi paradisiaci dove ogni cosa - ma proprio tutto tutto - ha il suo posto. Verboten lasciare il bicchierino di plastica sulla scrivania per tre mesi, verboten spargere molliche di pane sul tavolino davanti alla tv, verboten lasciare le cicche puzzolenti nel posacenere per più di due minuti. Nel tutorial che ho guardato, ad esempio, Alejandra ci mostra con sorrisi e squittii la cucina di casa sua, linda pinta e asettica come una sala operatoria (sono certa che taglia il pollo col bisturi), ma il momento più duro da mandare giù è quando apre il cassetto di un mobile extraluccicante di pulizia che nemmeno la casa di Barbie: all’interno c’è un organizer di plastica con dentro catalogati e suddivisi chiodini minuscoli, graffette, fiammiferi spaiati e ogni ben di dio per maniaci delle cose piccole & inutili. All’anta interna del suddetto mobile, è incollato l’ordinatissimo Elenco dei Numeri. Ammesso che si possa chiamare così anche la paginetta ciancicata su cui ho segnato i miei, in prima posizione c’è il telefono del pediatra di mia figlia ormai ultracentenario se non deceduto. Al secondo posto, quello del pizza delivery chiuso dai Nas due anni fa, insomma una specie di personalissima Antologia di Spoon River. A seguire, Alejandra ci mostra la scatola in cui tiene le batterie esauste con tanto di indicazione Size A, AA, ecc. La crisi d’asma però mi è venuta guardando il suo cassetto/espositore per le bustine del tè (sic). A questo punto ho mollato il tutorial e fatto una malinconica ispezione nella mia cucina. Io mi considero una Buttatrice Spietata - in contrapposizione a mio padre che conservava anche i lacci rotti delle scarpe da ginnastica di quando aveva quattro anni - ma posseduta dallo spirito di Alejandra ho finalmente trovato il coraggio di buttare via la bustina dello zafferano pagata un occhio e mimetizzata da circa un decennio dietro i pacchi della pasta. Non solo: ispezionando il mio armadio - guardaroba ho beccato una calza orfana che, infrattata tra le tshirt, l’aveva scampata bella alla precedente ispezione. Questa volta, nessuna pietà. Forse potrei sperare in un piccolo upgrade da parte dell’inflessibile Alejandra, se imparassi a fare centrini col filo interdentale usato.

Mi sono svegliata di notte con una domanda in testa, anzi due: la fissa di mettere ordine dentro armadi cassetti e ripostigli serve ad illudersi di non perdere il controllo sulla Vita, che intanto galoppa per conto suo a velocità forsennata? La caciara fuori di noi ci spaventa perché somiglia troppo a quella che abbiamo dentro la testa e il cuore? Se la risposta fosse sì, come credo, teniamoci ‘sto segreto per noi e risparmiamo la povera Alejandra (e i suoi settecentocinquantamila seguaci). Come cantava Caterina Caselli, la verità ti fa male lo so.

Una donna sola al comando

 

La Repubblica, martedì 9 marzo 1976. “Non siamo le donne dei caroselli, vestiti, profumi ma senza cervelli” recitava così il titolo sui grandi cortei femministi che avevano celebrato l’8 marzo nelle piazze di Milano, Padova, Firenze, Roma. La foto mostra una biondina in primo piano con un mazzo di mimose in mano. Quella dietro, con la sciarpa di seta indiana e l’aria corrucciata e insieme piena di aspettative, sono io a diciotto anni. Non mi sono fatta mancare niente: manifestazioni, gruppi di autocoscienza, militanza ai tavoli per raccogliere le firme a favore di divorzio e aborto, autodenunce in piazza, scambi di fidanzati tra compagne in nome della Sorellanza.

A diciotto anni mia figlia non ha più bisogno di conquistarsi libertà che (apparentemente) suonano obsolete; allo stesso tempo, però, tante donne ancora non hanno né diritti né voce: per povertà, ignoranza, tradizione, fede religiosa. O perché sono morte, uccise dai loro uomini.

Ho scoperto che nel 1915 il palazzo popolare in cui vivo è stato costruito, in parte, dalle donne rimaste a casa mentre i loro uomini erano in guerra. Quando in seguito Mussolini trascinò l’Italia nel secondo conflitto mondiale, loro combattevano la paura dei bombardamenti cantando nei lavatoi mentre facevano il bucato; piangevano insieme i morti; per scacciare il caldo se ne stavano sedute a parlare sui gradini freschi, fino a notte fonda. Chissà se erano felici. Da come descrivono quegli anni, sembrerebbe di sì. Anche noi ragazze degli anni ‘70 ci siamo date parecchio da fare: siamo scese a gridare nelle piazze, abbiamo studiato come matte e poi da grandi abbiamo lavorato il doppio dei colleghi maschi per conquistarci il nostro posto al sole. Non più mogli legittime & procreatrici, ma compagne amiche amanti sorelle. Una fatica bestiale. Se ci pensate bene, è sempre stato questo il potere delle donne: non fermarsi mai, fare tutto loro, per meritarsi di esistere.

Le mie donne preferite sono quelle che, invece di sentirsi perennemente in colpa per qualcosa, hanno imparato a dire ‘scusa ho sbagliato’ oppure ‘ti amo’ oppure ‘no, non me la sento’, senza azzerare se stesse e senza offendere chi hanno davanti. “Non si nasce donne: si diventa”, diceva Simone De Beauvoir, mamma di tutte le femministe, dopo averne fatte di ogni.

Due cose invece non sopporto delle donne: quando sono competitive contro e non con qualcuno; quando danno la colpa agli altri dei loro errori; quando fanno slealmente le scarpe ad un’altra donna. Sembrano solo brutte copie degli uomini. A diciotto anni non lottavo perché un giorno potessimo prendere il loro posto, non era questo il potere che volevo.

A proposito di potere, sempre più spesso leggo sui giornali che molti hanno nostalgia di ‘un uomo solo al comando’, che ci dica cosa fare e quando farlo, che porti pace e ordine dove vediamo solo conflitti insanabili. Una specie di JeegRobot invulnerabile e illuminato (anche di bell’aspetto non guasterebbe) che metta ordine nel caos insensato della vita e che ci preservi dal male amen. Ma a quale uomo possiamo chiedere tanto? O a quale donna?    

Per questo motivo non mi viene da pensare che ‘una donna sola al comando’ sarebbe meglio di un uomo. Sottotesto: quando il potere ce l’hanno gli uomini, si sa come lo usano… Le donne invece sono tutte Buone, Sagge, Portatrici di pace, Affidabili, e magari le paghi anche meno di un uomo. Ma anche questa è una favola perché se ci guardiamo oltre lo specchio, anche noi siamo - o possiamo essere - brutte sporche e cattive. La storia del mondo del resto è piena di donne che hanno usato male il potere quando lo hanno avuto per le mani, esattamente come se fossero uomini. E allora qual è la differenza? Io non la vedo. Ce ne sono altrettante però che hanno trasformato la parola potere -  nel suo significato di sopraffazione, violenza, rubberie - in responsabilità.  Se di una cosa ci prendiamo profondamente la responsabilità, che si tratti di un lavoro o delle relazioni d’amore oppure di una malattia, la possiamo affrontare, guardarla bene in faccia e poi decidere come cambiarla. Solo così smettiamo di sentirci sempre vittime di qualcun altro: il nostro capo, il Fato, la mamma, il marito. Glielo abbiamo attribuito noi quel potere.

Di fronte a qualsiasi sfida non sarebbe bello pensare semplicemente ‘io sono la persona giusta: nessun altro può fare questo al mio posto’ ? Chissà se l’ha pensato Giusi Nicolini, quando l’hanno eletta sindaca di Lampedusa, meta anno dopo anno di migliaia di sbarchi clandestini. Definita una leonessa per la sua azione coraggiosa in favore dei rifugiati, ha vinto il prestigioso premio ‘Simone de Beauvoir 2016’, assegnato ogni anno ad una persona che compie azioni significative per il progresso e la libertà delle donne in tutto il mondo. Questo sì che è un bel potere.

The Lady is a Trump

 

22 gennaio 2005, Florida. La modella Melania Knavs, fasciata in un Dior da 100 mila dollari decorato con 1.500 Swarovski, impalma il miliardario plurifallito e pluririsorto Donald Trump.

6 aprile 2016, Wisconsin. Ad un cenno del marito, in corsa per diventare Presidente degli Stati Uniti, Melania obbediente vacilla sul palco del comizio sopra le sue vertiginose Louboutins per raggiungere il microfono. Davanti al quale elenca con diligenza le meravigliose qualità del marito: «È un gran lavoratore, è gentile. Ha un grande cuore, è intelligente. È un grande comunicatore, è un grande leader e un uomo giusto». Sembra un tema - commenta una famosa giornalista americana - scritto dal figlioletto della coppia come compito per casa.

Chissà come ha potuto Trump conciliare il suo disprezzo verso gli immigrati con l’amore per un’immigrata slovena divenuta cittadina americana solo nel 2006. Forse perché Melania “ha proporzioni fisiche perfette e grandi tette”, come ha risposto Donald ad un giornalista che gli chiedeva perché ha una cieca, assoluta, fiducia in sua moglie (non so voi, ma a me il nesso sfugge). Lui con la coda di volpe sbiadita incollata sulla fronte, lei con la faccia scolpita dal botox… Sarebbe pure una bella favola, sebbene non molto originale, quella del Magnate che sposa la ex Povera ma Bella con la metà dei suoi anni, se non fosse che Donald è nel frattempo diventato il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America e Melania la First Lady. Per ora, a quanto sembra, lei ha solo dichiarato con orgoglio che la chiave del successo del suo matrimonio sono i bagni separati. Su tutto il resto - costruzione di muri contro gli immigrati, potenziamento dell’arsenale nucleare americano, abolizione della riforma sanitaria di Obama, rottura di accordi commerciali e trattati di scambio internazionali - non dice una parola.

La domanda che mi faccio è: se io avessi le gambe chilometriche, il nasino dritto, le tette fantastiche di Melania, avrei fatto diversamente? Ovvero, non avrei fatto anch’io di tutto per assicurarmi un’agiatissima esistenza foderata di Dior?

Il buddismo dice che prima di nascere scegliamo dove come e con chi vivremo. A seconda del nostro karma possiamo decidere se morire di fame in Zambia dentro una capanna di paglia, oppure guardare il mondo da un attico extralussuoso in cima alla Trump Tower. Quindi attenzione a cosa scegliamo prima di immetterci nell’autostrada della vita: Melania si è scelta sì un fisico esagerato e la conseguente corsia preferenziale verso il successo, ma nel pacchetto era compreso pure Donald. Dunque smettiamola di dire che è una povera sprovveduta.

Gira anche voce che ultimamente sia depressa, almeno a giudicare dalla sua espressione nel famoso video dove, davanti all’ennesimo microfono durante l’ennesimo comizio, basta che suo marito la sfiori con una carezza per spegnerle lo sguardo e ricacciarle le parole in gola. Da qui s’è scatenata la mania di farle la diagnosi online: Melania è mediamente depressa perché non sa più quale discorso pubblico copiare, dopo aver clonato quello di Michelle Obama ed essere stata beccata; è parecchio depressa perché sta scoprendo che fare la First Lady è noiosissimo; è mortalmente depressa al pensiero che Ivanka, la figlia prediletta di Donald (nata dalla platinata Ivana, sua prima moglie), tiene il padre al guinzaglio attraverso la gestione delle sue aziende ma soprattutto perché la cosiddetta First Daughter ha avuto più successo di lei come modella. E se Melania avesse semplicemente dormito male?

E in ogni caso, da qui a farne l’Ultima Femminista che lotta contro l’Orco cattivo - anche questa è una tesi, di origine incomprensibile, che gira sul web - ce ne corre.

Certo, non dev’essere una passeggiata ritrovarti davanti da 12 anni un marito con quella faccia, e peggio ancora quei capelli, e pensare che ti tocca ripetere un’altra volta, davanti ad un’altra folla, che Donald ha un grande cuore ed è intelligente. A parte offendere durante la sua campagna elettorale: tutte le donne che non siano Melania, i musulmani, i latino-americani, gli immigrati in genere, gli omosessuali, i disabili, i poveri. Comunque, pare che Melania non andrà a vivere alla Casa Bianca con il consorte ma resterà a New York col figlio Brandon per consentirgli di finire in pace la scuola là dove l’ha iniziata. In questo ha il mio appoggio incondizionato: se avessi sposato un mostro farei sicuramente lo stesso.

Chissà se qualche volta, scalciate via le Louboutins dopo una giornata passata tra un pranzo di beneficenza, l’inaugurazione di un asilo e quella di una nave da crociera, le scappa da ridere.

Come succede a noi, che siamo le First Lady di casa nostra e ci tocca barcamenarci tutti i giorni tra i bus in perenne ritardo, il nostro capo con la luna di traverso, la figlia che piange perché si sente un troll malgrado a noi sembri la più bella del reame, la raccomandata di Equitalia in attesa sul cassettone, il marito a cui mozzarella & prosciutto  - il cavallo di battaglia culinario di noi desperate housewives - non basta per sentirsi il nostro Mr President (come Marilyn chiamava il suo John, di cognome Kennedy). Dopo una giornata così, scalciate via le Bata rasoterra, forse anche a noi scappa un po’ da ridere. Oppure scappiamo e basta.

Melania non è mica un tipo banale come noialtre. Dichiara di amare moltissimo Donald (patrimonio stimato a braccio: 9 miliardi di dollari), ma “… se non gli piaccio più, bye bye”.

Io non ci credo. Secondo me, semmai si stufasse, sarebbe Donald a liquidarla come faceva con i concorrenti del suo talent show tv The Apprentice che sbagliavano qualcosa: “Sei fuori!”. Attenta Melania, si fa presto a diventare da Trump, una tramp (ovvero la vagabonda dell’arcinota canzone). Con ai piedi un paio di ballerine senza tacco Louboutins da 4oo dollari, però.

Razzi, salvaci tu!

 

Finalmente c’è qualcuno che ha le idee chiare su come risolvere il problema della violenza contro le donne e del femminicidio. Altro che femministe giudici e psicologi: ci voleva il Senatore della Repubblica Antonio Razzi, famoso per la sua limpidezza di pensiero e le sue incrollabili convinzioni, per enunciare in pubblico una scottante verità: la legge Merlin, che nel 1958 ha abolito le case chiuse, va rottamata. Basta guardarsi intorno per valutare i danni che ha prodotto: un esercito di ragazzine dell’est, di nigeriane e trans di vario colore, imbruttiscono le città e fanno innervosire le mamme, che mentre passeggiano devono spiegare ai loro pargoli curiosi che cosa stiano facendo quelle signore sedute tra i cespugli, o perché aspettino tutte il bus così lontano dalla fermata (le motivazioni di mia madre erano sempre molto fantasiose). Quindi perché non tornare ai bei vecchi tempi dei bordelli conclamati, che preservavano l’innocenza delle mogli timorate di dio e dei fanciulli prepuberi? E poi vuoi mettere esercitare il mestiere più antico del mondo in un ambiente protetto e confortevole - con controlli medici, iscrizione all’INPS e dichiarazione dei redditi - piuttosto che sulla strada, dove si sa che la compagnia non è delle migliori, senza considerare le condizioni metereologiche non sempre favorevoli?

Altro punto a favore delle tesi razziane: il mercato del sesso in Italia frutta novanta milioni di euro al mese, guadagnati da novantamila prostitute (all’incirca), con i loro nove milioni di clienti. Pensate a quanta gente in più potrebbe lavorare e guadagnare, giacché la crisi continua a mordere, se fosse legalizzato l’esercizio della prostituzione: affittuari di appartamenti camere d’albergo e garçonnieres, ginecologi specializzati, venditori di sex toys droghe alcool e altri generi di conforto (ad esempio i pizzadelivery, per gli affamati post-coito). E soprattutto il primo a incassare sarebbe lo Stato, il Grande Magnaccia che riscuoterebbe le dovute marchette. Siete dei poveri illusi se credete che per pagare le pensioni a tutti  (compresa la vostra) bastino le accise assurde sulla benzina, i lauti proventi del gioco d’azzardo, il pizzo statale sui pacchetti di sigarette (le vendite purtroppo sono un po’ calate grazie, pare, alle mortifere foto che li ricoprono) e le tasse che strozzano. Ergo, non fate gli schizzinosi: le case chiuse convengono un po’ a tutti. Lo pensa il 61% della popolazione italiana, oltre che un bel drappello trasversale di parlamentari, dai grillini ai pdini. Quindi perché ve la prendete solo con il povero Razzi? Forse perché, rispetto agli altri, lui ha un argomento in più per avvalorare la sua tesi: il maschio in vena di violenza, se placasse in libertà il suo istinto bestiale consumando sesso con una prostituta (che tanto è rotta a tutto), poi se ne tornerebbe soddisfatto e pacioso dalla legittima compagna, senza più la voglia impellente di prenderla a calci o a coltellate. Pensate che bell’atmosfera si creerebbe nel nostro paese: basta stupri di gruppo, basta ragazze violentate fuori dalle discoteche, basta ex fidanzate sfregiate con l’acido, e chi più ne ha più ne metta. Inoltre - suggerirei - ogni comune italiano potrebbe farsi il suo sito web, con un bell’elenco su cui scegliere la prostituta preferita a km zero, con misure prezzi e prestazioni tipo catalogo Ikea. Insomma, sarebbe tutto più facile e più igienico se si riaprissero ‘ste benedette case chiuse. 

Io però ho un problema: la claustrofobia. A me, le case e i posti in generale, più sono aperti e più mi piacciono. Immagino un luogo dove le donne e le ragazze possano andare a fare l’amore con chi vogliono, a tutte le ore del giorno e della notte, e senza spendere niente (magari a offerta, libera però), con letti atrepiazze comodissimi dove rotolarsi, musica di sottofondo, cioccolatini quanti ne vuoi, qualche buon libro di poesia. In questo caso, se servisse una maitresse, alzerei subito la mano. Lo so che là fuori i violenti rimarrebbero violenti, ma prima che ci capiti di incontrarne uno (augurandomi che non accada mai e poi mai) vuoi mettere che goduria?

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